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Fabbrica, galera, piazza: ieri e oggi

22 de agosto del 2020

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Protesta studentesca in Italia nel 1968

        Con questo testo vorrei condividere alcune riflessioni personali sull’uso della musica, e della parola, come strumenti rivoluzionari senza tempo, partendo proprio dai versi di Alfredo Bandelli in Fabrica, galera, piazza (1974). L’essere senza tempo, qui, si riferisce sia al fatto che la musica ha da sempre accompagnato pratiche e discorsi di militanza socioculturale e politica, sia al fatto che la musica di Bandelli, seppur inscritta in un ben preciso momento storico, e cioè quello delle agitazioni sociali degli anni Sessanta e Settanta in Italia, può diventare una lente attraverso cui osservare realtà contemporanee ed imaginari futuri. Infatti, avendo riscoperto recentemente questi brani, sebbene datati ormai a quasi 50 anni fa, sono stata colpita dalla loro attualità sorprendente nell’evocare il dispiegarsi e l’intrecciarsi di poteri e resistenze. L’obiettivo, quindi, è quello di offrire spunti, riflessioni e idee per pensare e rivivere un passato di lotte che così passato non è.

Alfredo Bandelli (1945-1994) è stato un cantautore e operaio italiano impegnato nella lotta proletaria e nei movimenti studenteschi degli anni Sessanta e Settanta, particolarmente a Torino. Incise il suo unico disco Fabbrica, galera, piazza nel 1974 per la casa discografica militante “I Dischi del Sole”. La pubblicazione di un solo disco e la scelta di rivolgersi proprio ad una casa discografica militante suggeriscono che piuttosto che essere un uomo di spettacolo, attraverso la poesia dei suoi versi, Bandelli è stato prima di tutto un attivista ed un narratore di lotte e resistenze. Figlio di un partigiano, Bandelli è fin da piccolo abituato ad ascoltare canzoni popolari e storie di militanza contro fascisti ed oppressori. Questo ha avuto grande influenza sul cantautore, che infatti decise di situare la sua musica fuori dal mercato stabilito, piuttosto trasformandola in un vero e proprio strumento di lotta popolare. In questo senso, alcuni dei suoi testi divennero veri e propri motori per le lotte studentesche e sociali di quel periodo in Italia.

Violenza, sorveglianza, precarietà e paura, sono temi ed esperienze ricorrenti oggi, nella quotidianità di crisi ingiuste e, spesso, evitabili. Ciononostante, simultaneamente, assistiamo al dispiegarsi di amore, solidarietà e lotta. Questi gesti e sentimenti, quasi come se avessero una conformazione liquida, non si arrestano, ma anzi penetrano nei tessuti sociali, e tra loro si diffondono assumendo forme nuove e imprevedibili. Che la si voglia chiamare resilienza oppure istinto di sopravvivenza, quest’attitudine a voler resistere, contro violenza e precarietà sistematiche, contro paura e sorveglianza esasperate, esisteva ieri ed esiste oggi. Diversa ma comunque sempre attuale. Alfredo Bandelli esplora e condivide quest’attitudine da cittadino, lavoratore e militante, e sebbene quest’esperienza sia inscritta nel periodo storico e sociale della Torino industriale degli anni Sessanta e Settanta, tra fabbriche e capannoni della Fiat, se osservata retrospettivamente, sostengo che possa offrire una cornice interessante per pensare in termini di resistenza alla realtà storica e sociale che stiamo vivendo oggi. Il Sessantotto Italiano ha sancito l’inizio di un lungo periodo di rivolta protrattosi per quasi tutta la durata degli anni Settanta. È stato caratterizzato da grande fermento sociale e culturale, inscritto all’interno di un antifascismo e anticapitalismo radicali, ha visto le lotte spostarsi in modo organico dalle università, alle fabbriche, fino a piazze e carceri. Questa conformazione fluida è stata un elemento distintivo dell’esperienza italiana – rispetto, per esempio, a quella francese, più breve e concisa. Tuttavia, è proprio questa mutevolezza che, se da un lato ha assicurato un movimento organico e intersezionale, dall’altro ha indotto profonde divisioni e rotture che eventualmente hanno sgretolato il movimento stesso, e che ancora oggi marcano alcuni dei discorsi e delle pratiche dell’attivismo italiano.

Detto questo, la musica di Bandelli, come già menzionato, è una musica militante e popolare, per questo, piuttosto che trattare tematiche idealiste astratte e lontane, si impegna a narrare queste storie ed esperienze di lotte e vite collettive, soprattutto articolatesi in quelli che si possono definire tre spazi fondamentali per guardare sia all’oppressione che alla rivolta sociale: fabbrica, galera e piazza. Questi spazi sono distinti ma comunque profondamente intrecciati tra loro. Voci, pratiche e ingiustizie, si muovono infatti da un luogo all’altro, unendo tra loro sia strategie di controllo e oppressione, sia strategie di lotta e rifiuto. Tutte e tre queste arene sociali, come fossero microcosmi distinti ma in dialogo, si caratterizzano da profonde gerarchie di classe, genere, e status, che allo stesso tempo sprigionano sentimenti di rifiuto radicale, accompagnati dalla necessità di immaginare e costruire pratiche di vita alternative.

Se osservati in chiave poetica, i versi di Fabbrica, galera, piazza riflettono lo stile proprio della letteratura militante. Il linguaggio è infatti di stampo popolare, semplice e diretto, permeato di ironia e di espressioni colloquiali. Ancor più importante, inoltre, è il fatto che la narrazione venga dal basso. Piuttosto che seguire una struttura gerarchica che ponga l’autore su un piano elevato, questi si inscrive all’interno delle sue stesse narrazioni, al fianco dei compagni e delle compagne militanti. L’Io dell’autore quindi scompare, sostituito dal Noi della collettività. Questo approccio rende i versi di Bandelli empatici ed accessibili, e probabilmente è proprio per questo che i suoi testi sono stati incorporati dalle lotte e dai movimenti popolari di quegli anni.

Fabbrica

La produzione si deve salvare

 ristrutturare e licenziare.

 Tutti d'accordo, patto sociale

 e riprendiamo a lavorare.

[…]

Ci voglion licenziare per farci impaurire

 poterci ricattare e non farci lottare,

 ma la nostra risposta per non farci fregare

 è "Col lavoro o senza noi si vuole campare".

Cresce la crisi, la svalutazione

 ma che ci frega della produzione.

Vogliamo avere il diritto alla vita

 a organizzarci per farla finita.

(La cassa integrazione, 1974)

In queste righe, attraverso un’ironia pungente, l’autore riflette su quella che possiamo definire un’ossessione esasperata, guidata dalle logiche egemoniche del sistema capitalista, nei confronti di profitto e sviluppo. Assumendo la vita come riferimento sia simbolico che reale, vediamo che per questo sistema, il pericolo è la libertà individuale – in questo caso degli operai e delle operaie – mentre la priorità è salvare la produzione. Pertanto, scavalcando ogni diritto individuale, è la fabbrica l’unico organismo da salvaguardare. In questo senso, la vita dei cittadini merita di essere protetta soltanto quando questa protezione non nuoce alla salute dello stato, del potere e del capitale. Ieri come oggi, i ‘sacrifici umani’, sotto forma di licenziamenti o, per esempio, di precarietà sociale e sanitaria, sono legittimati in quanto versati al Dio Denaro. Detto questo però, sia guardando al passato, che vivendo nel presente, sono tante le voci che si alzano per rifiutare questa cosmologia neoliberale, realtà in cui è lo ‘stato-capitale’ a decidere chi martirizzare.

Durante l’emergenza scatenata dal virus Covid-19 si è dibattuto molto sull’esigenza di salvaguardare la salute pubblica dello stato. Se da un lato abbiamo assistito ad una retorica incentrata sulla presunta volontà di proteggere vite umane, messa in atto dalla sorveglianza assoluta di spostamenti e comportamenti, dall’altro lato abbiamo vissuto l’attuarsi di una retorica parallela, diretta alla necessità di salvare industrie e profitti. Due pesi e due misure sono quindi stati utilizzati nell’ordinare le vite di cittadine/i e lavoratrici/ori secondo una scala gerarchica, per cui l’enfasi a salvare vite è stata accompagnata dalla necessità di sacrificarne altre. Concretamente, si è visto come il governo italiano si sia mosso in subordinazione alle esigenze di Confindustria, di fatto assecondandone le logiche produttive. Piuttosto attuali, pertanto, le parole amare di Bandelli nell’evidenziare che in ogni momento, la produzione si deve salvare. Ciononostante, altrettanto attuale è lo spirito combattivo e solidale che permea il testo. Invece di abbandonarsi alle logiche ingiuste dello stato neoliberale, infatti, è per il diritto alla vita che si vuole lottare. In questo senso, la resilienza di molti si è manifestata in proteste e scioperi che, nonostante le misure restrittive, sono stati portati avanti con creatività ed entusiasmo. A proposito di forme di resistenza alternative, mi viene in mente una delle tante proteste silenziose che videro protagonista proprio Alfredo Bandelli, quando nel 1979 si presentò nella fabbrica della Piaggio in cui lavorava con una sveglia al collo, come gesto ironico di dissenso contro il controllo ossessivo delle pause per i bisogni biologici degli operai e delle operaie. Gesto che, però, portò al suo licenziamento.

Galera

 

E se per caso voi sentirete

ch'è morto un carcerato

certo è possibile che quel disgraziato

sia stato massacrato

Ma se vi parlano di rivolte

di lotte nelle prigioni,

è perché cresce la lotta di classe

contro tutti i padroni.

 

Delle vostre galere un giorno

un buon uso sapremo far,

prima apriremo le porte agli schiavi

li accoglieremo nell'umanità

e dopo in fila uno per uno

vi metteremo tutti là

il tribunale del proletariato

i vostri delitti dovrà giudicar.

(Delle vostre galere un giorno, 1974)

La violenza sistematica dell’egemonia classista ora si espande incorporando la violenza poliziesca, nelle carceri così come al loro esterno. Anche in questo caso, i riflessi con varie realtà odierne mi fanno pensare. La violenza poliziesca, soprattutto durante lo scoppio di una pandemia, si autolegittima in quanto orientata verso la presunta difesa del bene comune. Il modello del panopticon quindi, emblema di sorveglianza e controllo, fuoriesce dalle carceri e si estende sulla più vasta scala sociale. Ciononostante, se da un lato assistiamo ad un’ossessione per ordine e controllo - dalle torrette delle carceri, all’interno delle fabbriche in cui tempo e spazio sono scanditi in maniera imprescindibile, dalla video-sorveglianza delle telecamere per strada, dai braccialetti elettronici, dalle applicazioni di monitoraggio, etc. –, dall’altro lato crescono la lotta, l’insoddisfazione, e la rivolta. Bandelli e i suoi versi erano proiettati verso un futuro organico e impegnato. In maniera simile, anche oggi osserviamo intrecci ibridi di voci militanti e solidali, voci che parlano con le persone in carcere, con quelle esauste dal lavoro e con quelle oppresse tutti i giorni in maniera brutale e sistematica. Si pensi per esempio alle tantissime proteste durante questi mesi di crisi all’interno delle carceri italiane, di cui tra le ultime quella nel carcere di Santa Maria Capua Vetere, ma anche fuori, per le strade, in sostegno ai carcerati, contro sovraffollamento, precarietà e violenza. Queste voci, in linea con quella di Bandelli, sembrano unirsi per gridare alla volontà di liberare gli schiavi ed accoglierli nell’umanità. In questo senso, piuttosto che guidate da un odio disumanizzante, è nell’esigenza di liberazione e giustizia che queste voci affondano le proprie radici.

Piazza

È mezzanotte e cominciano gli appostamenti

ma chi ci sarà su quella 500

che scorrazza per la città?

 

Sono le due, la centrale si è mobilitata

"a tutte le auto, è stato segnalato

movimento in corso Italia".

 

La polizia dello stato italiano

ci garantisce la tranquillità

che sempre l'ordine sia rispettato

che si lavori in serenità.

(E’ mezzanotte 1974)

Finalmente, anche spostandoci in piazza, le tematiche già osservate in fabbrica e in galera persistono. In questi versi così ironici Bandelli si prende gioco dell’autorità, in questo caso impersonata dalla polizia dello stato italiano, ma non così diversa da quella di padroni, caporali e guardie carcerarie. Rispettare l’ordine, e lavorare in serenità: questi sono i pilastri che l’autorità si impegna così strenuamente a sostenere, proteggere ed imporre. Nel farlo, si possono chiaramente distinguere strategie divisive, guidate da una retorica individualista che rifiuta ed intende contestare  ogni forma di coesione sociale. Tra queste strategie, segnalo per esempio il voler incoraggiare distanziamento sociale piuttosto che fisico, ma anche, soprattutto, la costante ricerca di un nemico da linciare.

E' cominciata di nuovo

la caccia alle streghe:

i padroni, il governo,

la stampa e la televisione;

in ogni scontento

si vede ‘uno sporco cinese’;

"uniamoci tutti

a difendere le istituzioni!”

(La violenza [La Caccia alle Streghe] 1968)

Qui Bandelli canta di quella tendenza a creare nemici, capri espiatori e martiri attraverso l’esperienza esemplare della caccia alle streghe. Il Potere di costruire queste narrative, affondate in scontenti e frustrazioni, è un Potere autoritario e abusivo. Si tratta di un ente esteso, che incorpora alla sfera politica, anche quelle culturali e sociali – istruzione, stampa, televisione. Come se non bastasse, attraverso il controllo della morale collettiva, questo Potere legittima odio e violenza, in quanto esercitante l’egemonia di distinguere il giusto dallo sbagliato, la minaccia dalla sicurezza, sia che si tratti di incoraggiare sentimenti xenofobi, di demolire pensieri diversi oppure di incoraggiare l’isolamento sociale. In altre parole, il Potere è qui inteso come la capacità di esercitare violenza all’interno di un determinato territorio e di una determinata popolazione, ma anche di stabilire quando e come questa violenza sia libera di manifestarsi, spesso e volentieri in maniera egemonica così che sia arbitrariamente legittimata e contestata. Detto questo, vivendo e osservando i margini, arene di discorsi e pratiche anti-egemoniche, Bandelli distingue ed esalta uno spirito ribelle che si contrappone all’ignoranza di un Potere fatto di manganelli e scudi romani. La piazza, pertanto, piuttosto che rappresentare l’ideale di una sfera pubblica unita e borghese, si disfa e si riproduce continuamente, ora impersonando inegualità, esclusione, gerarchie sociali, e ora il loro rifiuto.

Per usare le parole dei contrabbandieri franco-italiani nella prefazione della raccolta del Comité Invisible, “A volte, per ricominciare da capo, bisogna tornare indietro e operare su di un passato che continua a operare dentro di noi.” Questa volontà a guardarsi indietro riflette quindi una propulsione proattiva verso lo svolgersi del - e soprattutto l’organizzarsi nel - futuro. Questa forza creativa e rivoluzionaria diventa fondamentale soprattutto se contestualizzata all’interno di un’Italia politicamente arida, narcotizzata e lacerata, in cui la Sinistra non rappresenta che una massa informe muovendosi tra tutto ciò che non è esplicitamente fascista a tutto ciò che non è radicale né veramente antisistema. Per di più, sempre usando le parole dei contrabbandieri franco-italiani, “Sembra a volte che in Italia la sola legittimità a governare derivi dalla reiterazione infinita dell’annientamento dei rivoluzionari […] Come se l’annientamento di tutta una generazione attraverso il pentimento, la dissociazione, l’assassinio o la prigione avesse liquidato ogni fede nella possibilità di una rivoluzione. O l’avesse condannata a poterla fare solo simulandola.” Guardare ai motori rivoluzionari del passato, pertanto, piuttosto che essere un gesto indirizzato verso l’emulazione e la simulazione di quelle lotte, serve a combatterne l’annientamento sistematico. Attraverso esperienze, storie, racconti, e canzoni, le generazioni di rivoluzionari e rivoluzionare resistono questo annientamento, potenzialmente riappropriandolo e trasformandolo in modo creativo e radicale. Sia le rivoluzioni che la loro memoria collettiva, infatti, senza bisogno di capi né padroni, si muovono e vivono libere.

Ne abbiamo visti davvero tanti

 di manganelli e scudi romani,

 però s'è visto anche tante mani

 che a sampietrino cominciano a andar.

 Tutta Torino proletaria

 alla violenza della questura

 risponde ora, senza paura:

 la lotta dura bisogna far.

(La ballata della Fiat, 1970)

Bibliografia:

  • Nanni Balestrini & Primo Moroni, L'orda d'oro 1968-1977, 1ª Ediz. italiana: Milano, SugarCo., 1988.

  • Antonio Gramsci. Quaderni del carcere. Torino: Einaudi, vol. III, 1975.

  • Comitato invisibile. L’insurrezione che viene – Ai nostri amici – Adesso. Ediz. Italiana 2019. 

  • ilDeposito.org. https://www.ildeposito.org/

  • Immagine ottenuta da https://sessantotto68.wordpress.com/indra/

Escrito por

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Maria Emilia Sacchetti

Sono una studentessa di antropologia a Leuven, in Belgio, impegnata a costruire ponti tra questa disciplina e un attivismo femminista di matrice culturale, sociale, e politica. Questa attitudine di studentessa ‘impegnata’, l’ho coltivata nel tempo, ma sicuramente affonda le radici a Bologna, città in cui ho iniziato i miei studi universitari, e che mi ha aperto cuore e mente.

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